Porto d'armi
E' illegittimo l'annullamento della licenza motivato solo con un'antica sentenza di patteggiamento
Il Consiglio di Stato ribalta una sentenza del TAR Campania.
Un cittadino salernitano, cacciatore e titolare di licenza di porto d’armi, riceveva la notificazione di un provvedimento da parte della Questura con la quale si disponeva la “revoca” della licenza stessa, motivata unicamente con il fatto che quasi venti anni prima egli aveva patteggiato una pena per uno dei reati di cui all’art. 43 del T.U. delle leggi di pubblica sicurezza.
Stante il fatto che il patteggiamento era molto risalente nel tempo, l’interessato proponeva ricorso al TAR Campania, il quale lo rigettava con sentenza del 2018.
Il Consiglio di Stato, adito in sede di appello, in via preliminare riqualificava (più correttamente) l’atto gravato, che più che “revoca” veniva ricondotto tipologicamente al potere di annullamento d’ufficio cui all’art. 21 nonies L. n. 241 del 1990, in quanto incentrato sul riscontro di circostanze ostative al rilascio della licenza di porto di fucile per uso di caccia e della carta europea d’arma da fuoco preesistenti.
Il Supremo Consesso, con sentenza della III Sezione n. 3303 dell’1 giugno 2018, accoglieva il gravame, ribaltando la decisione di primo grado.
I giudici di Palazzo Spada, infatti, hanno evidenziato che l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio di un provvedimento che autorizza l’uso delle armi, pur con riferimento ai delicati interessi coinvolti nella relativa materia, soggiace ai limiti contemplati, con valenza generale, dal citato art. 43 del TULPS, ed in particolare a quello connesso alla necessità per l’Amministrazione di esplicitare “le ragioni di interesse pubblico” sottese all’intervento di autotutela ed alla esigenza di “tenere conto degli interessi dei destinatari”.
L’esigenza motivazionale scaturente dalla citata disposizione deve ritenersi rafforzata, nella fattispecie in esame, alla luce del notevole lasso temporale trascorso dalla commissione del reato oggetto della sentenza suindicata e dalla stessa pronuncia di quest’ultima, senza che l’interessato, alla luce delle allegazioni delle parti e degli atti depositati in giudizio, abbia dato adito a rilievi di sorta in ordine all’uso delle armi al cui porto è stato nelle more autorizzato.
Il provvedimento di autotutela si fondava, in via esclusiva, sull’accertamento del citato risalente precedente penale, di carattere astrattamente ostativo, a carico dell’appellante ma non assolveva correttamente all’obbligo di fornire una motivazione “rafforzata” quale quella voluta, appunto, dalla norma sopra menzionata.
Mattia Murra
(11 giugno 2018)
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